DIRITTO DI FAMIGLIA

Con la separazione legale i coniugi non pongono fine al rapporto matrimoniale, ma ne sospendono gli effetti nell’attesa o di una riconciliazione o di un provvedimento di divorzio.

Con il divorzio (introdotto e disciplinato con la legge 1.12.1970 n. 898) viene invece pronunciato lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili (se è stato celebrato matrimonio concordatario con rito religioso, cattolico o di altra religione riconosciuta dalla Stato italiano). Col divorzio vengono a cessare definitivamente gli effetti del matrimonio, sia sul piano personale (uso del cognome del marito, presunzione di concepimento, etc.), sia sul piano patrimoniale (successione ereditaria). La cessazione del matrimonio produce effetti dal momento della sentenza di divorzio.

Con la Legge n. 55/2015 è stato introdotto l’istituto del “divorzio breve” che stabilisce tempi molto più brevi rispetto al passato per poter richiedere il divorzio. L’art. 1 di detta legge stabilisce che devono essere trascorsi:”[…] dodici mesi dall’avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale (giudiziale) e sei mesi nel caso di separazione consensuale, anche quando il giudizio contenzioso si sia trasformato in consensuale”.

Si ha separazione consensuale quando tra i coniugi viene raggiunto un accordo sulle condizioni che dovranno disciplinare i rapporti personali e patrimoniali ed il loro rapporto con i figli.

Quando i coniugi sono in una situazione di conflitto tale da non permettere loro di raggiungere alcun accordo, la separazione sarà inevitabilmente giudiziale e le condizioni della stessa verranno stabilite dal Tribunale.

E’ possibile giungere ad un accordo sulle condizioni di separazione anche durante lo svolgimento del giudizio che, in tal caso, si trasforma da giudiziale in consensuale.

La separazione in via consensuale è, di certo, auspicabile in quanto riduce i tempi ed i costi del giudizio, oltre a favorire l’instaurazione di rapporti più sereni tra le parti.

No. Oggi una coppia che consensualmente vuole separarsi o divorziare può scegliere tre strade. Presentare un ricorso congiunto al Tribunale e ottenere l’omologa della separazione (o, in caso di divorzio, ottenere la sentenza che pronuncia lo scioglimento del matrimonio o la cessazione dei suoi effetti civili), oppure scegliere tra due nuove opzioni: la negoziazione assistita da avvocati (art. 6, D.L. 132/2014) e la conclusione di un accordo presso l’ufficio dello Stato Civile, ma solo in presenza di determinate condizioni (art. 12, D.L. 132/2014).

una volta stilato l’accordo raggiunto a seguito della negoziazione, il procedimento si diversifica qualora la coppia abbia figli minori, maggiorenni non autosufficienti, portatori di handicap o incapaci.

La procedura di negoziazione assistita si svolge con l’assistenza di due avvocati (uno per coniuge), i quali, raggiunta la sottoscrizione di un accordo tra marito e moglie, trasmettono tale scrittura alla Procura della Repubblica per un controllo di regolarità.

In presenza di figli minori la Procura dovrà trasmettere l’accordo al P.M. affinchè dia la sua autorizzazione. Al termine della procedura l’accordo viene pubblicato nei registri dello stato civile.

La separazione il divorzio si intendono perfezionati fin dal momento della firma dell’accordo.

Il legislatore ha, infine, previsto una terza strada per addivenire alla separazione o al divorzio consensuale.

Seguendo tale via alternativa i coniugi possono recarsi presso il Comune di residenza di uno di essi o presso il Comune in cui il matrimonio è stato iscritto o trascritto e, innanzi al Sindaco, in qualità di Ufficiale di Stato Civile, concludere un accordo di separazione o di divorzio alle condizioni da loro stessi concordate.

La stessa cosa può avvenire per la modifica delle precedenti condizioni di separazione e divorzio, sia personalmente che con l’assistenza facoltativa di un avvocato.

Tale procedura è, però, preclusa alle coppie con figli minori, maggiorenni non autosufficienti, portatori di handicap o incapaci (art. 12) e, n ogni caso, l’accordo non può contenere patti di trasferimento patrimoniali.

Sì, la separazione semplificata (e così pure il divorzio) mediante negoziazione assistita dagli avvocati è possibile anche in presenza di figli, e anche quando i figli sono minori di età oppure maggiorenni ma economicamente non autonomi, o portatori di handicap grave.

In questi casi, tuttavia, una volta che l’accordo è stato concluso e trasmesso al Procuratore della Repubblica, può accadere che il Procuratore lo ritenga non conforme all’interesse dei figli minori, e lo trasmetta al Presidente del tribunale. Questi convoca le parti entro i successivi 30 giorni.

Ove ricorrano specifiche circostanze e se richiesto da una delle parti, il Giudice può pronunciare la separazione dichiarando a quale dei due coniugi essa sia addebitabile.

L’addebito assume rilevanza in ambito successorio (art. 548 e 585 c.c.) e per la determinazione dell’assegno di mantenimento (art. 156 c.c.).

Costituiscono fatti che possono condurre all’addebito della separazione quelli che ledono il dovere di lealtà, quali i maltrattamenti, l’omessa assistenza morale e materiale e l’abbandono ingiustificato della casa coniugale.

Secondo la giurisprudenza, l’adulterio, di per sé, non è causa di addebito, se non quando sia grave e notorio al punto da determinare discredito sociale in pregiudizio dell’altro coniuge.

Il Giudice, pronunciando la separazione, può stabilire a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la separazione il diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento (cc.dd. assegno di mantenimento), qualora i suoi redditi non siano adeguati a permettergli di mantenere un tenore di vita similare a quello condotto in costanza di matrimonio (art. 156 c.c.). L’entità dell’assegno è determinata in relazione alle circostanze e ai redditi del coniuge obbligato.

Resta fermo l’obbligo di prestare gli alimenti per chi versa in istato di bisogno e non è in grado di provvedere autonomamente e per ragioni obiettive (i figli minori o maggiorenni ma non ancora economicamente autosufficianti). Diversamente dal mantenimento, gli alimenti rappresentano un contributo minimo e indispensabile per consentire di soddisfare i bisogni primari dell’individuo.

L’affidamento dei figli può essere condiviso o esclusivo.

Con la Riforma del diritto di famiglia del 2006 viene prediletto l’affidamento condiviso che prevede, in caso di cessazione della convivenza dei coniugi, l’attribuzione stabile ad entrambi i genitori dell’esercizio della responsabilità genitoriale in regime di comune accordo.

Il Giudice valuta primariamente l’interesse del minore ed in certi situazioni critiche (abusi, violenze, totale disinteresse del genitore al figlio, violenza sulla madre in presenza ei figli, impossibilità temporanea o definitiva dei genitori di essere individuati come affidatari a causa di malattie, di dipendenze (alcool, sostanze stupefacenti, etc.) o per altri gravi motivi) può essere disposto l’affidamento esclusivo ad uno solo di essi.

La legge prevede che l’abitazione nella casa familiare spetta di preferenza, e ove possibile, al genitore cui vengono affidati i figli, o con il quale i figli convivono oltre la maggiore età e sino alla loro indipendenza economica (art. 155 c.c. e art. 6 L. 898/70).

In ogni caso il Giudice deciderà a quale dei coniugi assegnare la casa coniugale dopo aver valutato le loro condizioni economiche e le ragioni della sua decisione, favorendo il coniuge più debole.

L’assegnazione, pertanto, non è possibile a favore del coniuge non affidatario o in mancanza di figli. In tale ultimo caso la disponibilità dell’abitazione coniugale sarà disciplinata sulla base delle normali regole sulla proprietà e sulla locazione.

Come possono tutelarsi le coppie di fatto?

Il nostro ordinamento non prevede una disciplina specifica dedicata alla convivenza more uxorio, i quali possono cercare di tutelare i propri interessi stipulando degli accordi – cc.dd. “patti di convivenza” – miranti a regolamentare i propri rapporti patrimoniali.

AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO, INTERDIZIONE ED INABILITAZIONE

L’istituto dell’amministrazione di sostegno è stato introdotto con la Legge n. 6 del 9.1.2004.

L’amministrazione di sostegno mira a tutelare le persone, in tutto o in parte, prive di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente che limitino il meno possibile la capacità di agire.

Tale nuovo istituto si aggiunge agli istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione e rappresenta uno strumento giuridico più idoneo a conservare l’azione dei soggetti interessati nel contesto sociale.

L’amministrazione di sostegno può riguardare anziani, disabili, alcolisti, tossicodipendenti, carcerati, malati terminali, non vedenti e tanti altri soggetti portatori di un disagio che rende loro arduo svolgere concretamente le attività quotidiane ma per i quali non sia opportuno procedere ad una richiesta di interdizione o di inabilitazione.

Queste categorie di persone potranno così presentare direttamente un’istanza al Giudice Tutelare della propria zona di residenza o di domicilio richiedendo la nomina di un amministratore che abbia cura di loro e del loro patrimonio.

Di norma vengono preferite persone legate da parentela con il beneficiario però possono essere anche designati soggetti estranei ma comunque ritenuti idonei a garantire il rispetto degli interessi del soggetto bisognoso.

Non sono richieste competenze specifiche per svolgere l’incarico.

La legge non prevede che l’amministratore di sostegno riceva un compenso per lo svolgimento dell’incarico ma può essergli riconosciuto un rimborso spese e, in taluni casi, un equo indennizzo stabilito dal Giudice Tutelare, in relazione al tipo di attività da svolgere.

I compiti dell’amministratore di sostegno vengono analiticamente stabiliti nel decreto di nomina emesso dal Giudice Tutelare. Se dovesse rendersi necessario porre in essere atti non previsti nel decreto, l’amministratore di sostegno deve rivolgersi al Giudice e chiedere la relativa l’autorizzazione.

La durata dell’incarico è variabile ed è il Giudice Tutelare a decidere se disporre una nomina a tempo indeterminato o determinato. E’, comunque, sempre possibile chiedere una proroga dell’incarico allo scadere del tempo inizialmente stabilito.

L’istituto dell’interdizione trova applicazione in tutti quei casi in cui una persona maggiorenne si trovi in situazione di abituale infermità di mente che comporti una incapacità di provvedere ai propri interessi, ossia una incapacità legale a compiere atti giuridici (come quella in cui si trova il minore).

Gli atti eventualmente compiuti dall’interdetto saranno pertanto annullabili su richiesta del tutore, dello stesso interdetto o dei suoi eredi o aventi causa (art. 427 c.c.).

La domanda di interdizione può essere chiesta solo da determinati soggetti e viene dichiarata con sentenza che, contestualmente, nomina un tutore, scelto di preferenza tra il coniuge che non sia separato, il padre, la madre, un figlio maggiorenne o la persona designata con testamento dal genitore superstite.

Il tutore ha il compito di rappresentare legalmente l’interdetto e di amministrarne il patrimonio.

Per inabilitazione si intende un’incapacità giuridica relativa, di minore importanza rispetto all’interdizione.

Essa può essere chiesta solo in particolari situazioni (art. 415 C.C.):

  • per un soggetto maggiore di età infermo di mente, lo stato del quale non è talmente grave da far luogo all’interdizione;
  • per coloro che, per prodigalità o per abuso abituale di bevande alcooliche o di stupefacenti, espongono sé o la loro famiglia a gravi pregiudizi economici;
  • per il sordomuto e il cieco dalla nascita o dalla prima infanzia, quando risulta che essi sono del tutto incapaci di provvedere ai propri interessi, salva la possibilità, per i casi più gravi, di ricorrere all’interdizione.

Nel caso di inabilitazione non si ha una vera e propria rappresentanza legale ma una forma di assistenza devoluta ad un curatore nominato dal Giudice Tutelare.

Il curatore, pertanto, non si sostituisce all’inabilitato, ma si limita ad integrare la volontà dell’inabilitato nel compimento degli atti giuridici che lo riguardano.

Se, però, si rende necessario compiere atti di alienazione o di straordinaria amministrazione, si deve chiedere l’autorizzazione al giudice tutelare o al tribunale, a seconda dei casi.

DIRITTO SUCCESSORIO

Il nostro ordinamento prevede che si trasmettano per successione solo i diritti patrimoniali (artt. 587 e 588 c.c.), mentre tutti i rapporti non patrimoniali, sia personalissimi che familiari, si estinguono con la morte del titolare.

Secondo quanto stabilito dall’art. 462 c.c., nella successione testamentaria sono capaci di succedere:

  • coloro che sono nati al tempo dell’apertura della successione;
  • i nascituri concepiti;
  • i figli non concepiti di una determinata persona vivente al tempo della morte del testatore.

Diversamente, nell’ambito della successione legittima la capacità di succedere compete solo alle prime due categorie indicate.

Possono, inoltre, succedere solo per testamento le persone giuridiche e gli enti non riconosciuti, fuorchè lo Stato a cui viene devoluta l’eredità in mancanza di altri successibili.

Entrambe le fattispecie sono collocate nella categoria generale della successione a causa di morte, che comporta il subingresso di un soggetto nella titolarità di uno o più rapporti giuridici facenti capo ad un altro soggetto.

Se la successione a causa di morte è a titolo universale il successibile viene denominato “erede” mentre se è a titolo particolare si parla di “legatario”.

In caso di successione a titolo universale l’erede subentra indistintamente nell’universalità dei beni del testatore o in una quota degli stessi (art. 588 c.c.) e di regola vi è confusione tra il suo patrimonio e quello del defunto, sicchè l’erede risponde dei debiti ereditari anche con il proprio patrimonio.

La legge prevede espressamente la nullità dei cosiddetti patti successori (art. 458 c.c.), che si suddividono in tre fattispecie:

1. patti istitutivi: convenzioni con cui il soggetto dispone della propria successione;

2. patti dispositivi: negozi con cui un soggetto dispone dei propri beni in favore di terzi;

3. patti rinunciativi: il soggetto rinunzia ai diritti successori che potranno spettargli all’apertura della successione.

Il legislatore ha previsto lo strumento dell’indegnità per permettere la rimozione di un soggetto dall’eredità o dal legato nel caso in cui abbia mantenuto una condotta riprovevole nei confronti del defunto, nei casi tassativamente indicati all’art. 463 c.c. (a titolo di esempio: attentati alla persona fisica del testatore, attentati alla sua integrità morale ed alla libertà di testare).

Le fasi necessarie per l’acquisto di un’eredità sono:

  • vocazione dell’erede, ossia la designazione del successibile per testamento o per legge;
  • delazione dell’erede, ossia l’offerta del patrimonio ereditario al successibile (che, di norma, coincide con la vocazione);
  • accettazione, che rappresenta lo strumento concreto con cui si acquista l’eredità.

La qualità di erede si acquista, infatti, solo dopo aver manifestato concretamente la volontà di accettare l’eredità e gli effetti dell’acquisizione retroagiscono al momento dell’apertura della successione (art.459 c.c.), che coincide con la morte del testatore nel luogo del suo ultimo domicilio (art. 456 c.c.).

L’accettazione di eredità è soggetta ad un termine ordinario di prescrizione decennale (art. 480 c.c.) e può essere di due tipi:

  • pura e semplice, nel qual caso si avrà confusione tra il patrimonio del defunto e quello dell’erede;
  • con beneficio d’inventario, in cui il patrimonio del testatore rimane distinto da quello dell’erede, che risponde delle obbligazioni trasmessegli solo nei limiti del valore del patrimonio ereditario.

L’accettazione di eredità può essere espressa, tacita e presunta (o legale).

L’accettazione è espressa quando il chiamato all’eredità ha dichiarato di accettarla oppure ha assunto il titolo di erede mediante atto pubblico o scrittura privata (art. 475 c.c.); è tacita quando il chiamato all’eredità compie un atto che presuppone necessariamente la sua volontà di accettare e che non potrebbe fare se non nella qualità di erede (art. 476 c.c.); è presunta o legale quando il chiamato copie atti di disposizione che, con presunzione assoluta, vengono considerati atti di accettazione implicita (es. donazione, vendita e cessione dei diritti di successione o rinunzia a quest’ultimi, ex artt. 477 e 478 c.c.).

La successione legittima (o intestata) è disciplinata dalla legge, che predispone criteri e soggetti cui attribuire i diritti successori in caso di assenza di testamento.

Essa è, infatti, suppletiva alla successione testamentaria, che ha titolo nel testamento e consente all’individuo di disporre dei propri beni per il periodo successivo alla sua morte.

I successibili vengono individuati dal legislatore in base all’intensità dei vincoli di parentela che uniscono i congiunti al defunto (i parenti più prossimi escludono i più lontani).

Le classi dei successibili sono così individuate: coniuge, discendenti legittimi e naturali e adottivi, ascendenti legittimi, collaterali, altri parenti (fino al sesto grado) e Stato (art. 565 c.c.).

Il testamento è un negozio giuridico unilaterale e personale e solo il testatore è legittimato a porlo in essere; è revocabile e deve necessariamente estrinsecarsi in una delle forme previste dalla legge.

Il testamento può essere ordinario o speciale:

  • è ordinario se olografo (scritto, datato e sottoscritto dal testatore, art. 609 c.c.) o redatto per atto di notaio in forma pubblica (art. 603 c.c.) o segreta (art. 604 c.c.);
  • è speciale se pubblico e redatto per iscritto, davanti ad un pubblico ufficiale o assimilato, in una delle forme riconosciute dall’ordinamento solo per determinate situazioni o circostanze eccezionali (ad es. in caso di malattie contagiose, calamità pubbliche, infortuni; testamenti in navigazione marittima o aerea e testamenti dei militari ed assimilati).

La pubblicazione del testamento è l’atto con cui si rende conoscibile il contenuto dello stesso ai chiamati alla successione, ai familiari del defunto, ai creditori ereditari ed a quelli dell’erede ed ha, altresì, la funzione di renderne possibile l’esecuzione.

Devono essere pubblicati il testamento olografo e quello segreto.

Chiunque è in possesso di un testamento olografo deve presentarlo ad un notaio per la pubblicazione non appena ha notizia della morte del testatore.

Il testamento segreto deve essere aperto e pubblicato dal notaio appena gli pervenga la notizia della morte del testatore e tale pubblicazione ha luogo con le stesse modalità del testamento olografo (art. 621 c.c.).

Per la stesura di un valido testamento la legge richiede che il testatore abbia una piena capacità di agire e di intendere e di volere.

Sono, dunque, incapaci di testare tre categorie di soggetti: i minori, gli interdetti per infermità di mente e gli incapaci naturali (art. 591 c.c.).

Il chiamato all’eredità che intenda rinunciarvi lo può validamente fare solo dopo che è stata aperta la successione, stante il divieto dei patti successori.

La rinuncia all’eredità deve essere fatta con atto solenne davanti ad un notaio o ad un cancelliere del Tribunale del circondario in cui si è aperta la successione e viene, poi, inserita nel registro delle successioni (art. 519 c.c.).

La rinuncia è nulla se ad essa viene apposta una condizione o un termine, oppure se viene fatta solo per una parte dell’asse ereditario (art. 520 c.c.).

legittimari sono coloro che, a fronte di uno strettissimo legame di sangue o di coniugio con il testatore, non possono essere esclusi dalla successione e sono titolari di un diritto intangibile ad una quota del patrimonio ereditario; per tale motivo la successione dei legittimari viene anche definita “necessaria”.
I legittimari sono il coniuge, i figli legittimi e naturali ed i loro discendenti e gli ascendenti legittimi (art. 536 c.c.).

In presenza di legittimari il testatore può disporre solo di una parte del suo patrimonio (c.d. quota disponibile), della quale il testatore è libero di disporre come vuole, e la quota legittima o riserva, della quale invece il testatore non può disporre perché spettante per legge ai legittimari.

L’azione di petizione dell’eredità può essere proposta dall’erede che voglia ottenere il riconoscimento della sua qualità ereditaria contro chiunque possieda tutti o parte dei beni ereditari per ottenerne la restituzione.

L’azione di riduzione, invece, ho lo scopo di reintegrare la quota di legittima che è stata lesa, riducendo le disposizioni testamentarie e le donazioni fatte dal de cuius ma eccedenti la quota di cui egli poteva disporre (art. 553 c.c.).

I soggetti che possono esperire tali azioni sono il legittimario leso, il legittimario escluso dal testatore, l’erede e l’avente causa del legittimario.

La collazione dell’eredità è l’obbligo e, reciprocamente, il diritto che spetta al coniuge e ai discendenti legittimi e naturali di conferire alla massa attiva del patrimonio ereditario (già accettato) tutte le liberalità che essi hanno ricevuto in vita dal defunto, in modo da dividerle con gli altri coeredi, in proporzione delle rispettive quote.

La collazione mira, infatti, a mantenere tra i coeredi del testatore quella proporzionalità di quote che è stabilita nel testamento o nella legge.

La donazione è un contratto con cui, per spirito di liberalità, una parte arricchisce l’altra, disponendo a favore di questa di un suo diritto o assumendo verso la stessa un’obbligazione (art. 769 c.c.).

Sono, pertanto, elementi della donazione lo spirito di liberalità del donante e l’arricchimento del donatario.

La donazione è un negozio solenne e deve avvenire, a pena di nullità, davanti ad un notaio ed in presenza di due testimoni tramite atto pubblico.

Prima che la donazione si perfezioni, sia il donante che il donatario possono revocare la loro dichiarazione (art. 782 c.c.).

INFORTUNISTICA E RISARCIMENTO DANNI

Le classificazioni cui è soggetto il danno risarcibile sono varie e molteplici.
Innanzitutto, va tenuto distinto il danno patrimoniale dal danno non patrimoniale.
Sono danni patrimoniali quei danni inferti, per l’appunto, alla sfera patrimoniale del singolo soggetto, mentre i danni non patrimoniali vanno ravvisati nella lesione di interessi giuridicamente rilevanti cagionata secondo le regole degli articoli 2043 e seguenti del codice civile.
All’interno della macro-categoria dei danni patrimoniali si suole differenziare il danno emergente (ossia la perdita effettivamente subita e valutabile economicamente) dal lucro cessante (ossia il mancato guadagno conseguente l’evento lesivo).
Nel danno non patrimoniale, invece, si possono configurare diverse voci descrittive del pregiudizio sofferto, quali il danno biologico, il danno morale e il danno esistenziale.
Il danno biologico è a lesione temporanea o permanente all’integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito.
Il danno morale è la sofferenza di tipo soggettivo cagionata dall’evento lesivo, sofferenza che può essere sia di natura transitoria, sia di natura permanente.
Il danno esistenziale è infine rappresentato da qualsiasi compromissione delle attività realizzatrici della persona umana, quale ad esempio la lesione della serenità familiare, o del godimento di un ambiente salubre, distinto dal danno biologico perché non presuppone l’esistenza di una lesione fisica, e distinto dal danno morale perché non costituisce una sofferenza di tipo soggettivo.

Si tratta di un istituto di common law che trova il suo principale luogo di sviluppo negli Stati Uniti d’America, dove, con l’espressione punitive damages , ci si riferisce ad una «sanzione civile a contenuto pecuniario, il cui ammontare è attribuito – generalmente – al danneggiato in aggiunta al risarcimento del danno vero e proprio, allo scopo di sanzionare l’autore (o, più in generale, il responsabile) di condotte lesive avverso le quali l’ordinamento giuridico dimostra un elevato sentimento di riprovazione».

Nell’ordinamento italiano, considerata la funzione compensativa e non già sanzionatoria della responsabilità civile, non è prevista una tale voce di danno.

Generalmente, per ottenere il risarcimento dei danni sofferti è necessario fornire indicazione esatta non solo dell’an (ossia dell’evento lesivo generatore del danno), ma anche del quantum (ossia prova dell’esatto ammontare in cui si concretizzano i pregiudizi arrecati al danneggiato).
Tuttavia, l’art. 1226 c.c. stabilisce che se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, viene liquidato dal giudice con valutazione equitativa.
Affinché si dia luogo alla valutazione equitativa è necessario che risulti provata l’esistenza di un evento lesivo collegato da un nesso causale alle lesioni sofferte (prova del c.d. an) e che il quantum non possa

In via del tutto esemplificativa è possibile distinguere due termini di prescrizione a seconda che il danno risulti causato da un inadempimento contrattuale, ovvero extra-contrattuale.
In ipotesi di responsabilità contrattuale (artt. 1218 ss. c.c.) il risarcimento può essere chiesto entro dieci anni dall’inadempimento dell’obbligazione, mentre nel caso di responsabilità extra-contrattuale (artt. 2043 ss. c.c.) il danneggiato ha diritto ad ottenere il risarcimento qualora eserciti i propri diritti entro cinque anni dal verificarsi dell’evento lesivo.
Inoltre, va precisato che in caso di danno prodotto dalla circolazione dei veicoli, il diritto al risarcimento si prescrive, ai sensi dell’art. 2947 c.c., secondo comma, nel termine di due anni, salvo che il fatto lesivo sia considerato dalla legge come reato. In quest’ultima eventualità, infatti, se per il reato è prevista una prescrizione più lunga, lo stesso termine andrà applicato anche all’azione civile.
Per impedire il maturarsi della prescrizione è necessario porre in essere un c.d. atto interruttivo della stessa, quale, ad esempio, la messa in mora del danneggiante mediante lettera raccomandata.

Certo, è possibile, m solo se viene accertato dal Giudice che la morte sia stata conseguenza di una condotta dolosa o colposa di un soggetto/i terzo/i.
Il risarcimento per la perdita di un familiare o di un parente comprende varie tipologie di danno sia patrimoniale che non patrimoniale.

Sì, in primo luogo perché il licenziamento illegittimo comporta, per chi lo subisce, danni di varia natura.
Discorso similare va fatto per il demansionamento, come pure per il mobbing e per tutte le altre condotte datoriali palesemente contrarie alla legge.
Sono risarcibili sia i danni di natura patrimoniale che quelli di natura non patrimoniale.

DIRITTO DEL LAVORO

Il contratto individuale di lavoro viene stipulato tra il lavoratore ed il datore di lavoro ed è un accordo a fronte del quale il lavoratore s’impegna a rendere il proprio servizio al datore di lavoro e quest’ultimo si impegna a corrispondere al lavoratore una retribuzione per il lavoro svolto (art. 319 CO).

Il contratto di lavoro è solitamente concluso a tempo indeterminato ma, specialmente a fronte della crisi economica che ha coinvolto il nostro Paese negli ultimi anni, è aumentato notevolmente il numero dei contratti di lavoro conclusi per un tempo determinato, tali da comportare la cessazione automaticamente del rapporto alla data prestabilita.

Il contratto collettivo di lavoro è un contratto stipulato tra datori di lavoro o associazioni di datori di lavoro e associazioni di lavoratori (sindacati), che disciplina in modo uniforme le condizioni di lavoro (ore supplementari, vacanze, disdetta, ecc.) e di retribuzione in specifici settori lavorativi.

Il CCL deve essere rispettato da tutti i datori di lavoro e i lavoratori che sono affiliati a una delle parti contraenti del CCL o hanno aderito al CCL (datori di lavoro e lavoratori aderenti).

Solitamente nella parte introduttiva di ogni CCL sono riportate delle disposizioni relative al campo materiale di applicazione dello stesso.

Se un’impresa svolge attività che rientrano in diversi campi materiali (es. settore “edilizio” e settore “falegnameria”) può accadere che siano applicabili diversi CCL, anche se di norma viene applicato in via uniforme il CCL del ramo in cui rientra l’attività principale dell’azienda.

I CCL sono messi a disposizione delle parti contraenti e comunque molti CCL sono pubblicati in Internet (vedi sito SECO, Servizio CCL del Sindacato Unia).

Non necessariamente. Un contratto di lavoro è valido ed efficace anche se concluso verbalmente (art. 320 CO) e addirittura vi è una presunzione di esistenza del contratto nel caso in cui il datore di lavoro accetti una prestazione che si presume necessariamente prestata a pagamento (art. 320 cpv. 2 CO).

La forma scritta è richiesta solo in casi eccezionali (ad es. per il contratto di tirocinio o per il contratto d’impiego del commesso viaggiatore).

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Sì. La legge prevede che il datore di lavoro, al momento di conclusione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato o per più di un mese (art. 330b CO), debba informare per iscritto il lavoratore in merito a:

– nome dei contraenti,
– data d’inizio del rapporto di lavoro,
– funzione del lavoratore,
– salario ed eventuali supplementi salariali,
– durata settimanale del lavoro.

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Le ore supplementari sono le ore di lavoro che superano la durata del lavoro stabilita contrattualmente ed individuata nel contratto individuale di lavoro, in un CCL o eventualmente in un CNL. Se inavvertitamente il contratto non contiene alcuna disposizione relativa alla durata del lavoro allora si applica la «durata del lavoro d’uso» (art. 321c cpv. 1 CO).

In caso di malattia del figlio il genitore ha diritto a restare a casa per massimo tre giorni senza dover attingere alle vacanze e producendo idoneo certificato medico del figlio malato. Un esonero più lungo è ammesso solo se adeguatamente giustificato e viene equiparato all’impedimento al lavoro senza colpa (art. 324a CO).

Certo. La risoluzione immediata del contratto di lavoro è ammessa ma unicamente per cause gravi, ossia per circostanze che non permettono di esigere in buona fede la continuazione del rapporto di lavoro (art. 337 CO).

Tra le violazioni gravi che giustificano un licenziamento immediato senza preavviso si possono ricordare i reati sul posto di lavoro, il rifiuto ripetuto di compiere il lavoro, lo svolgimento di attività concorrenziale, la divulgazione di segreti d’affari, oltraggi a superiori o colleghi, etc.

Sì ma, anche in questo caso, solo se non si può esigere che il lavoratore prosegua il rapporto di lavoro in buona fede e solo in casi gravi, come ingiurie da parte di superiori, violenze sessuali, gravi e continue inadempienze delle prescrizioni sulla protezione della salute etc.